Prossimo Evento: 24 - 25 Maggio 2025


Quando è arrivata la nostra disciplina nel Belpaese? Una ricostruzione storica a partire dalla sua apparizione, guidati da un ospite d’eccezione: Fabrizio Canè

di Adelio Rosate, team e marketing manager di O&B Padel

In precedenti articoli abbiamo provato a ricostruire la storia del padel, andando alle sue origini, coinvolgendo testimoni della sua affermazione in Argentina e, al tempo stesso, co-protagonisti della sua evoluzione in Spagna e in Italia. Quali Adrian Alganaras, direttore dell’accademia di Palma di Maiorca, e Ariel Mogni, direttore del Centro Padel Firenze e di altri circoli toscani. E in Italia? L’esponenziale crescita di questi ultimi cinque anni, con 10 mila campi sul territorio, ci porterebbe a pensare che questo sport sia un fenomeno recente, circoscritto a questo decennio e coincidente all’attività della FIT (diventata poi appunto FITP per dare il giusto spazio anche al padel) per promuoverlo.

In realtà l’apparizione del padel in Italia risale a molto prima, quasi in modo naif e un poco romantico, a oltre 30 anni fa. Era già considerato come disciplina sportiva in alcune manifestazioni internazionali. Nei Giochi del Mediterraneo che si tennero a Bari, nel 1997, per esempio, fu inserito come sport dimostrativo, come ci racconta Fabrizio Canè. Un testimone d’eccezione che, a quei Giochi, ci ha partecipato. Il suo aiuto prezioso ci accompagna in questa ricostruzione storica, di cui è stato testimone e attivo protagonista.

Fabrizio nasce a Bologna negli Anni ‘60. Nel periodo in cui in città, calcisticamente parlando, accade qualcosa di magico ed esaltante. Nel giugno 1964, Il Bologna di capitan Bulgarelli batte a Roma, in uno spareggio per il titolo al cardiopalma, nientepopodimeno che l’Inter di Helenio Herrera, vincitrice una settimana prima della Coppa dei Campioni contro il Real Madrid di Di Stefano e Puskas.

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La famiglia Canè con Paolo, Fabrizio e papà Giancarlo

Così i rossoblù si cuciono al petto lo Scudetto. Lo scenario bolognese in cui si ritrova il Fabrizio bambino è questo, con l’eco dell’euforica impresa calcistica a riecheggiare per le vie e le piazze della città. Nei cortili è un susseguirsi di rumori tonfi e di palloni calciati. Fabrizio, non da meno, inizia a sua volta a tirare calci al pallone sognando un giorno il comunale (ora Dall’Ara).

Papà Giancarlo è diviso tra l’orgoglio di tifoso e il tennista appassionato; frequenta il Felsineo, lo storico circolo di tennis cittadino. Li vi sono ottimi maestri e Fabrizio si ritrova iscritto di default alla scuola SAT. Sovrasta in statura almeno di una spanna i compagni, ha già forza da vendere che esplode sulla sua Dunlop Maxply. Presto inizia a raccoglierne i frutti. È campione italiano ai Giochi della Gioventù Under 16 a Bari nel 1978. Somma ben 60 vittorie nei tornei di terza categoria, diventa B3 e successivamente maestro.

Spesso, nelle partite di torneo, può contare sul tifo di un bimbo minuto, il fratello Paolo, che fa tesoro di quanto osserva e che poi diventerà “turborovescio”. Fabrizio inizia a insegnare al Circolo Tennis Aeroporto, dove incontra un personaggio che lo appassionerà a un nuovo sport: Daniel Patti, argentino. A Daniel manca uno sport lasciato nella sua Buenos Aires e si prodiga per farlo conoscere qui. Il padel, appunto. Ne cura l’organizzazione istituzionale dopo aver ottenuto di costruire due campi nel circolo stesso (guardati dai più con deferenza).

L’argentino coinvolge i migliori tennisti del club, e tra questi, Fabrizio. Spiega loro regole, colpi e strategie del gioco. Contemporaneamente continua la sua opera di divulgazione della nuova disciplina. Ha già fondato la FIGP, Federazione Italiana Gioco Padel, e in qualità di suo presidente contatta i circoli di altre città. Di lì a qualche anno si possono contare campi da padel a Milano (Gardanella), Trento, Costabissara (VI) e Lido del Savio (RA), che danno vita nel 1997 all’attività agonistica. Contemporaneamente nasce il primo circuito europeo al quale partecipano quattro nazioni, le stesse che nell’autunno dello stesso anno, a Barcellona, disputeranno il campionato a squadre. Sono Italia, Spagna, Francia e Austria con gli iberici che, inevitabilmente, sovrastano gli altri.

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A destra Fabrizio Canè negli Anni ’90

Il nostro Fabrizio affina la tecnica e a casa, assieme alla strana racchetta che accosta a quelle di Paolo e di papà Giancarlo, inizia a portare orgogliosamente anche coppe. Ha l’opportunità di confrontarsi in più di una kermesse internazionale. Partecipa con la squadra italiana ai mondiali di Mar del Plata, in Argentina. Dove l’Italia schiera già entrambe le formazioni, maschile e femminile, con sette giocatori ciascuna, tre coppie e una riserva.

“Il divario era notevole in confronto ai sudamericani. Non potevamo competere”, dice Fabrizio. “Ma l’occasione fu una grande opportunità per comprendere cosa rappresentasse il padel in quella cultura sportiva e affinare maggiormente la nostra tecnica. Potemmo ammirare da spettatori la finale che, inevitabilmente, si svolse tra Spagna e Argentina”.

Due anni dopo ha modo di partecipare di nuovo ai Mondiali che si giocheranno a Tolosa, in Francia. Nel frattempo, prende in gestione il Circolo Aeroporto che ospiterà nel 2005 gli Europei. Ma il legame con il fratello Paolo è forte e la distanza si fa sentire. Paolo, a fine carriera, è rimasto a Bergamo dove era andato per giocare la Serie A a squadre e dove inizia a fare il coach per poi gestire anche un centro. Gli serve l’aiuto del fratello che è ora anche istruttore di padel, ma conserva il diploma di maestro di tennis. Fabrizio non ci pensa molto, lascia Bologna e anche il padel. A Bergamo ritrova la vicinanza del fratello Paolo e trova anche l’amore, Barbara, oggi sua compagna di vita da 16 anni.

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I fratelli Paolo e Fabrizio Canè

L’intervista
Fabrizio Canè

Hai conosciuto il padel in Italia, quasi trent’anni fa. A lungo è rimasto uno sport sconosciuto ai più. Poi improvvisamente, da poco meno di dieci anni fa, è stato riproposto con l’incredibile crescita che ne è seguita. Quali sono state le leve che hanno portato a questo incredibile successo e che prima mancavano?
È stato certamente importante il ruolo della Federazione Tennis, che lo ha promosso. In particolare, incentivandone la costruzione di campi nei circoli di Roma, all’aperto e con investimenti più contenuti, mentre noi a Bologna giocavamo solo nella bella stagione. Le restrizioni sul Covid hanno dato una mano, quando molti per poter fare attività fisica si sono tesserati a questo sport essendo tra quelli concessi di praticare.

Dal punto di vista tecnico, quali sono le differenze rispetto a quello giocato da voi?
Certamente la principale è nell’evoluzione dei materiali, che hanno reso il gioco anche più veloce. Considera che le nostre racchette erano in legno, con una evidente minor sensibilità e forza esprimibile sulla palla. I campi stessi ora hanno le pareti in vetro. Ma c’è anche una differenza fisica. In Argentina allora vi erano giocatori con un‘ottima mano, ma spesso sovrappeso. Ora l’agilità è una componente fondamentale.

Spesso si fanno gli accostamenti con il tennis, quali le differenze più evidenti?
Nel successo di questo sport, influisce il rapporto “livello tecnico-soglia di divertimento”. Per esempio, essendo la racchetta senza corde e la palla depressurizzata rispetto a quella da tennis, palleggiare restando in controllo è più facile. Ovviamente per saperlo giocare bene bisogna imparare posizione, bandeja e vibora, scelta dei colpi a secondo del momento. E lì le cose cambiano.

In Italia siamo ormai a 10 mila campi con una distribuita capillarità nelle regioni a più alto tasso demografico (quali Lombardia, Lazio, Campania, Puglia). Come vedi l’evoluzione del mercato e del movimento da qui ai prossimi cinque anni?
Ora che domanda e offerta iniziano a pareggiarsi sono molteplici i fattori che ne determineranno il consolidamento. Dove è ubicato il centro, la struttura, i prezzi, la capacità di ottimizzare l’intrinseca caratteristica aggregante con servizi complementari quali bar e ristorazione. Ma penso che il più importante sia quello di saper sviluppare una politica sul settore giovanile. Mixando l’organizzazione tecnica a un’offerta economica che lo renda accessibile.

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Il campo centrale dei Mondiali 2000 a Tolosa

Hai avuto modo di giocare in posti sacri per il padel: in Argentina e in Spagna. Quali differenze di approccio hai colto tra le due culture?
Premesso che la mia esperienza è ormai un po’ datata, l’organizzazione del padel in Argentina risentiva inevitabilmente dalla situazione socio-economica. Quando andammo a giocare lì, era in corso una delle tante crisi economiche che il Paese ciclicamente vive. I campi dismessi erano molti e, come sappiamo, molti giocatori emigravano in Spagna. La differenza chiave non è quindi tanto nel livello tecnico quanto nella struttura organizzativa del movimento spagnolo.

Riusciremo in Italia a essere competitivi con iberici e argentini?
Molto dipende da quanto in parte già detto. Lo saremo quando e se riusciremo a far completare il ciclo a partire dal settore giovanile, dalla fascia junior per arrivare poi al professionismo. Con allievi che inizieranno a praticarlo come sport principale e integrale. Dove il fattore prezzi sarà una variabile importante per l’accessibilità a un numero esteso di ragazzi, in modo da poter competere con le analoghe fasce in Spagna e Argentina.

Nella foto in apertura: la squadra italiana in partenza per i Mondiali a Mar del Plata nel 1998



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